La prudenza imprenditoriale come discernimento del bene possibile
La mancanza di impegni morali può frustrare le riforme strutturali più ben intenzionate. Oggi la riflessione in quest’area sembra più soggettiva ed elusiva in paragone allo studio critico delle decisioni e delle strutture. Eppure specialmente oggi deve essere data l’attenzione alle virtù professionali. La crescita di larghe organizzazioni ha accresciuto questo bisogno. Sebbene la burocrazia offra accresciute opportunità per monitorare la prestazione – e perciò sembra diminuire il bisogno di virtù internalizzate- per un altro verso rende la società crescentemente ostaggio della virtù del professionisti che lavorano per essa. Grandi organizzazioni hanno enormi poteri con cui coprire gli errori dei loro dipendenti. Inoltre l’opportunità per l’accresciuta specializzazione che provvedono significa che pochi altri conoscono ciò che un dato esperto fa.
Si tratta di riscoprire il ruolo determinante della responsabilità personale e l’importanza degli atteggiamenti soggettivi, che definiscono il carattere, la mentalità, la personalità, la coscienza del soggetto che lavora, e nei quali si esprime la sua libertà. Tra gli atteggiamenti virtuosi la prudenza ha un ruolo dominante: è l’abilità di prendere decisioni competenti nelle situazioni di vita reale. In termini aristotelici si tratta della virtù della saggezza (phronesis), e può essere qualificata come condizione necessaria affinché la pratica imprenditoriale possa esplicitarsi e all'interno di questa possano manifestarsi le virtù che le sono proprie.
Implica di discernere le ragioni buone per impegnarsi negli interventi attraverso un processo di percezione accurata delle situazioni, di deliberazione saggia, di decisione e di azione .
La prudenza come discernimento pratico (1.) individua il giusto e il bene da attuare attraverso la scoperta delle opportunità che si aprono all’interno dell’impresa (2.) e che si concretizzano nelle sue strategie (3.). Configura un tipo di imprenditore caratterizzato dalla capacità di ponderazioni realistiche e nello stesso tempo coraggiose (4.).
1. Il discernimento prudenziale
Il giudizio morale non procede immediatamente dai principi razionali, che rimangono riferimento normativo imprescindibile, ma si costituisce in rapporto all'esperienza imprenditoriale intesa non come fatto materiale ma come luogo di emergenza di ideali concreti, luogo che perciò esige una comprensione valutativa in vista del giudizio sul “maggior bene possibile” in quella determinata impresa1. Questa reciproca composizione degli elementi costitutivi del giudizio può essere descritta in termini di « mediazione » o « discernimento » e mira all'individuazione di ideali storici concretamente perseguibili nella precisa situazione dell’impresa2.
Occorre tener conto che sovente le decisioni da assumere nell’ambito dell’impresa si collocano in quella zona discrezionale, dove non si può essere guidati da mere regole etico-professionali e dove la formazione del carattere virtuoso determina la capacità di ponderazioni coraggiose e rispettose di tutti i valori in gioco3.
La virtù della prudenza opera la «differenziazione interna del principio», ossia scopre modi appropriati di vivere - in quella determinata circostanza - un determinato principio morale; in tal modo quel principio morale si rende visibile al soggetto, che lo comprende in modo ancora più consapevole e con maggiore ricchezza di significato.
La saggezza prudenziale realizza così una mediazione tra il principio morale, o l'orientamento morale generale, e la circostanza particolare, ma non nel senso che indebolisce le richieste del principio per andare incontro alle circostanze, bensì nel senso che individua il significato del principio in quelle circostanze4. Nella situazione dell’impresa ciò significa discernere il senso e il valore di quanto nell’azienda concreta si vive e si produce, un giudizio che è operato dalla coscienza riferendosi come a criterio supremo all'ímmagine dell'unico Signore della storia5.
La virtù della prudenza come processo del discernimento pratico, si struttura in tre momenti logici strettamente connessi ed intercomunicanti nella dovuta reciprocità ermeneutica: l’analisi, la valutazione e la progettazione (SRS n.41).
L’analisi e la valutazione esigono come approdo logico il momento progettuale di identificazione delle scelte e del modello di impresa da costruire e sviluppare. Il discernimento prudenziale coglie la situazione dell’impresa esplorando le varie dimensioni dei singoli fatti e delle strategie da affrontare, e delle strutture istituzionali ed economiche da cui i problemi sorgono e a cui sono indirizzate le politiche.
Per questo il discernimento pratico esamina le cause, vaglia le conseguenze, delimita i legami e identifica gli attori. E aiuta a dare senso alle esperienze produttive, ponendole in un orizzonte più largo ed evidenziando le loro connessioni. Si tratta di cogliere i problemi strutturali più profondi, identificare i fattori chiave, tracciare le tendenze a lungo termine, muovendosi in un orizzonte più largo, che permetta un’azione più efficace6.
Il momento analitico del discernimento non è progettato per provvedere una risposta immediata alla questione circa che cosa si deve fare, ma chiarisce il contesto dentro cui il momento progettuale deve situarsi e prendere forma con efficacia7.
Il discernimento prudenziale implica più che lo sviluppo dei giudizio e del ragionamento morale. È in questione la sensibilità morale, il carattere e la motivazione. Si pongono questi interrogativi: come gli agenti giungono a percepire le situazioni nel modo che le sentono? Come una situazione specifica viene ad avere un particolare carattere per un particolare agente morale?
Nell’approccio del pensiero narrativo il discernimento prudenziale viene pensato nel contesto dello sviluppo di una persona come soggetto morale capace di prendere le sue responsabilità: tale sviluppo non è determinato da atti e situazioni singole isolate, ma da un processo in cui si configura la persona e in cui vengono integrati bilanciamenti e ponderazioni di esigenze etiche diverse e in tensione. E questo a partire dalla scoperta di ciò che si può descrivere come un’obbedienza ad una vocazione. La prospettiva personalista diventa importante per gestire le pretese conflittuali degli stakeholders e per comprendere diversi punti di vista: le norme e le attese personali non sono staccate, come avviene nel modello casistico dell’etica applicata, dal loro contesto concreto di racconto in cui appaiono e a partire dal quale le persone sono chiamate ad agire analogicamente nel loro proprio contesto professionale o privato (Caritas in veritate n.41). Tale contesto narrativo rende eticamente rilevante ogni situazione. La sapienza prudenziale consiste nell’abilità di bilanciare la complessità delle situazioni mantenendo coerenti le intenzioni morali.
La prudenza imprenditoriale rientra così tra le “importanti virtù”, di cui Giovanni Paolo II offre un elenco: “la diligenza, la laboriosità, la prudenza nell’assumere i ragionevoli rischi, l’affidabilità e la fedeltà nei rapporti interpersonali, la fortezza nell’esecuzione di decisioni difficili e dolorose, ma necessarie per il lavoro comune dell’azienda e per far fronte agli eventuali rovesci di fortuna””8.
2. Il maggior bene possibile
Appelli a grandi valori come il bene comune, la giustizia e altre virtù classiche, presumono non solo un linguaggio comune e modelli istituzionalizzati di deliberazione morale, ma anche capacità trascendenti di conoscenza e riflessione da parte degli agenti, e un grado significativo di autonomia nell’azione umana. Per es. domandare ai dirigenti e ai dipendenti di agire in modi che accrescano il bene comune implica che essi siano in posizione di discernere e di essere motivati da una visione comprensiva di comunità; si assume anche che essi abbiano un significativo grado di potere per contribuire alla realizzazione di tale visione . Le imprese sono organizzazioni che permettono l’esercizio di tali capacità? Sono questi ideali alla portata dei membri dell’impresa?
Nella teoria dei sistemi Il contributo del soggetto diventa insignificante, privo di ogni capacità di gestire le interconnessioni tra i sottosistemi, e tra il sistema e il suo ambiente9.
Dalla prospettiva delle dottrine economiche, molti teorici enfatizzano il ruolo potente e fallibile degli interessi umani e della ragione nell’azione dell’impresa10.
Secondo queste visioni l’azione individuale nell’impresa è formata più potentemente dai limiti della visione umana e dai ristretti spazi di libertà di azione che dalle potenzialità espansive sottolineate dai teologi.
Sia da un punto di vista sociologico ehe economico, sorgono dubbi circa l’enfasi ottimistica dei teologi moralisti sui valori e virtù dell’imprenditore e in generale degli operatori economici.
La considerazione teologica del comportamento etico dell’individuo nell’impresa deve iniziare dall’analisi attenta delle caratteristiche dell’azione umana nelle organizzazioni imprenditoriali. Le imprese incanalano le motivazioni nelle relazioni di scambio, rendono di routine l’azione umana e incoraggiano una razionalità limitata a compiti ravvicinati dentro confini ristretti di conoscenza e di abitudine, generano una complessa rete di relazioni di dipendenza che comprimono la libertà dei partecipanti.
Prese seriamente, queste caratteristiche rendono le indicazioni teologiche ed etiche virtualmente irrilevanti per la condotta nell’impresa. Il punto non è che i membri siano incapaci di espandere i loro orizzonti morali o di sviluppare il carattere e le virtù, ma il fatto che gli ordinamenti dell’impresa esibiscono caratteristiche che scoraggiano tale responsabilità, e così rendono problematica la chiamata a più alti valori o visioni. La spinta umana verso una causa o verso una comunità che trascende l’individuo può essere tra le più importanti delle spinte umane, ma è incanalata in modo riduttivo, se non frustrata o deformata, negli ordinamenti dell’impresa.
Si tratta di assumere l’elemento strutturale senza ridurre ad esso l’azione individuale in quanto tale. La dimensione strutturale convive con l’agire personale in un rapporto aperto. Il punto non è quello di ripiegare sulla dimensione soggettiva, abbandonando quella istituzionale-organizzativa, ma piuttosto quello di cogliere le interrelazioni reciproche e gli spazi che le ambivalenze e le ambiguità degli assetti istituzionali, permeabili alle influenze esterne, lasciano aperti e all’interno dei quali l’azione dei soggetti ha luogo.
I modelli esistenti di azione nell’impresa non sono antitetici al comportamento morale: non solo possono, ma devono essere presi seriamente per sviluppare un’etica efficace dell’impresa. Invece di ignorare gli elementi di finitezza, un’etica dell’impresa dovrebbe iniziare a ricercare i segni di trascendenza dentro le caratteristiche, che abbiamo richiamato e dalle quali la prudenza imprenditoriale non può prescindere.
Il punto di partenza della prospettiva teologica del discernimento prudenziale sarà una prospettiva limitata, suggerita dalla relazione di scambio, dal limitato impegno dei partecipanti, dai compiti di routine, dalla razionalità limitata e dalla relazione di potere basato sulla dipendenza. Ci si chiede come una larga visione morale potrebbe essere sviluppata all’interno di un punto di vista limitato e ridotto.
Considerando lo spazio della libertà imprenditoriale, il grado di responsabilità di un imprenditore è in funzione dell’estensione della sua decisione e del suo spazio di azione. Al microlivello, astraendo dai limiti personali interiori dei particolari soggetti, la prudenza manageriale si esercita nelle condizioni che limitano le decisioni e le azioni del leader dal di fuori. Al mesolivello, l’impresa determina, attraverso la sua cultura, politica e strategia, un insieme di condizioni che l’imprenditore non può non accettare. Al macrolivello, molte circostanze sono plasmate dalle forze del mercato, dalla legge civile e da altri fattori socioculturali.
Così compreso, il giudizio prudenziale e pratico può riflettere l’impegno ad esprimere la fede cristiana in un modo che prenda in conto i limiti delle possibilità umane e morali.
Certamente discernere ciò che è decisione eticamente appropriata o corretta per un dirigente in una particolare situazione risulta spesso un processo complicato e ambiguo del giudizio morale11. Non è una deduzione facile, immediata e autonoma dai primi principi. Le scelte morali nell’impresa sono toccate, come abbiamo visto, da una miriade di fattori contestuali e complessi. I dirigenti agiscono dentro ad una rete di molteplici responsabilità, dipendenze e obiettivi. Discernere chiare gerarchie di valori morali può essere illusorio. Le azioni sono plasmate da obiettivi organizzativi e culture, da procedure di lavoro, direttive da parte dei capi, relazioni e partecipate responsabilità con i collaboratori. Dipendono poi da come uno comprende il proprio ruolo, come uno percepisce il proprio potere e quello degli altri. Questi fattori contestuali creano le opportunità e le possibilità per l’agire prudenziale, determinano le funzioni e le strutture che pongono limiti alla responsabilità morale del manager. Essi toccano e complicano le decisioni pudenziali circa le persone verso cui sono dirette o no, se e come affrontare un problema morale nell’organizzazione o ignorarlo, quale linea di prodotto migliorare e quale no.
In questo contesto emerge l’astuzia, che non ha immediatamente una connotazione negativa ma richiama al realismo. I dirigenti “astuti” cercano di portare le situazioni a vantaggio della loro impresa, usando varie strategie. Sanno quando inserirsi o quando tirarsi fuori dalla competizione, quando nascondere le carte in una delicata negoziazione e quando decisive misure per risparmiare denaro devono essere prese. Ma l’astuzia deve sposarsi con l’integrità. E per questo è necessario il discernimento prudenziale.
Ciò richiama al bene possibile. Esso non è l’abbandono dei principi morali in nome di espedienti: c’è un modo positivo di vedere il compromesso12. Per questo preferiamo parlare del maggior bene possibile. Si tratta di scelte prudenziali che cercano di fare giustizia a diverse pretese morali, tutte valide. L’impresa riconosce responsabilità verso diversi gruppi di stakeholders. Talvolta non c’è conflitto tra i diversi interessi, talvolta, specialmente in tempi di crisi, sì. Di fronte alla necessità di tagliare i costi, l’impresa deve scegliere tra ridurre i dividendi degli azionisti, decidere qualche licenziamento, restringere la serie di prodotti per i clienti, dilazionare i pagamenti ai fornitori o diluire il processo di bonifica dell’inquinamento.
La scelta del bene possibile ha il significato di cercare un equilibrio tra gli interessi e mantenere la fiducia dei diversi gruppi piuttosto che abbandonare un gruppo in favore di un altro. Ma il punto principale è che la realtà finanziaria spesso costringe il dirigente a decisioni, che non possono incontrare le legittime esigenze morali rappresentate dai diversi gruppi come pienamente vorrebbe13. Nella scelta del bene possibile deve esserci un elemento di tensione verso una scelta migliore nel futuro. Dove questo manca, la scelta può degenerare in conformità acritica, in una compiacente accettazione dello status quo. La scelta prudenziale del maggior bene possibile prende sul serio la promessa che è insita in quella scetta creativa: la speranza per qualcosa di meglio nel futuro. “Astuti come serpenti e semplici come colombe”: il detto di Gesù spinge a combinare insieme le diverse capacità dell’imprenditore, con sapienza prudenziale: l’idealismo temperato dal realismo, i valori coniugati con l’astuzia, l’integrità e la furbizia.
Tendere al bene possibile dentro un ambiente connotato da un punto di vista limitato e ridotto, implica che vi sia una comprensione dell’ impresa secondo la sua espressione empirico-fattuale, ma anche secondo la sua mission, le sue virtualità, le sue istanze prefigurate in vicende e “progetti”. Legittima un'idea di bene che sia capace di mettere in crisi permanente ogni acquisizione specifica e parziale, rendendola perciò contingente.
E mette in relazione il bene pieno con `modi', `tempi' e `persone' caratterizzate della finitudine e parzialità, attraverso un atto interpretativo che cerca di coniugare il momento dell'universalità con quello della particolarità14.
Illuminato dalla logica cristiana dell’Incarnazione, che va nel senso opposto dell’idealismo, il discernimento prudenziale permette all’uomo di scoprire che la propria fedeltà a Dio passa per il riconoscimento del maggior bene possibile nel presente. All’esigenza massimalista si oppone la pazienza e il rigore del compito concreto e spesso poco glorioso, che si impone se non si vuole deludere l’attesa legittima del prossimo. Non vi è qui come un modo di vivere la risurrezione nella forma di quel possibile latente in ogni impasse, e nella stessa morte?. Questo valorizzare le buone possibilità nelle decisioni concrete e apparentemente modeste è efficace e razionale15.
Il bene morale nell’impresa è sempre legato alle possibilità e alle condizioni storiche; esso è, in altre parole un bene possibile. La categoria del possibile - che è del resto presente in tutti i campi dell’esistenza - presenta qui soprattutto la sua necessità: si tratta di valutare la misura più o meno grande di approssimazione al bene che è immanente nelle molteplici possibilità di azione concreta, interpretandone la consistenza intrinseca16.
Nella prospettiva del bene possibile la prudenza imprenditoriale si confronta con tre tipi di sfide etiche. La richiesta di condotta etica alle imprese comprende richieste etiche minime, obbligazioni positive oltre il minimo, e aspirazioni ideali17. Il primo tipo include norme etiche di base, sancite dal sistema giuridico, i cui contenuti devono essere specificati ulteriormente ad un livello concreto, dove sorgono le difficoltà ed entra in opera il discernimento produenziale18. Ma la giustizia sociale invita ad un atteggiamento più positivo di attivo contributo per il bene comune da parte di tutti i settori di ogni comunità, contributo che va oltre il minimo etico sancito dal diritto. Tale atteggiamento consiste nel creare e mantenere relazioni di fiducia con gli stakeholders, nell’aiutare i dipendenti nel bisogno, nel ricompensare la comunità per i danni non intenzionali, nell’impegnarsi per le condizioni di un giusto mercato. A questo livello è più difficile trovare consenso, ma alcune norme positive sono necessarie per il funzionamento dell’economia.
Infine l’agire prudenziale è caratterizzato da aspirazioni a ideali, capaci di mobilitare energia e motivazioni nelle imprese. Queste aspirazioni creano le identità specifiche e le “missioni” delle imprese. 19
L’arte dell’agire prudenziale nell’impresa consiste nell’identificare gli spazi di libertà sempre limitati, allargando per quanto è realisticamente possibile i loro confini, alla luce di una sensibilità morale in cui l’apporto dell’insegnamento sociale della chiesa può essere rilevante20. In tal modo riconcilia il ragionamento morale con la razionalità economica, concepita con un concetto allargato che include la legittimità sociale, quale elemento costitutivo della ragione economica.
3. Le strategie prudenti dell’impresa
Un concetto allargato di razionalità economica consente di mettere in opera un agire prudenziale che cerca, come suggerisce la teoria strategica del management, il risultato superiore attraverso la realizzazione buona di una strategia che unisce capacità e risorse organizzative con opportunità ambientali in modo da creare vantaggi competitivi.
E ci sono numerose strategie di impresa che un’azienda può adottare. L’adeguatezza dell’aderenza appropriata tra la capacità dell’impresa, gli interessi dei soggetti e la strategia selezionata determineranno l’impatto delle attività sociali dell’impresa sulla sua sopravvivenza a lungo termine e su i suoi risultati economici. Si tratta di una strategia illuminata dal discernimento prudenziale e tesa al bene possibile in una situazione complessa.
È a lungo termine che l’importanza dei risultati sociali dell’impresa diventa evidente. Mentre il risultato economico dice se l’impresa sarà vitale a breve termine, è il risultato insieme economico e sociale che determina la legittimità sociale ed economica a lungo termine.
Le valutazioni etiche e le valutazioni economiche non possono che essere divergenti quando le prime siano espressione di giudizi moralistici, che prescindono da una adeguata conoscenza delle situazioni concrete, e le seconde siano guidate dalla ricerca indiscriminata del profitto, senza distinguere tra profitti di breve e di lungo periodo, tra profitti che sfruttano qualsiasi opportunità, senza curarsi di costruire una forte capacità competitiva e coesiva, e profitti che scaturiscono da tale capacità; tra profitti che servono prioritariamente all’arricchimento di alcuni e profitti che sono destinati a sostenere lo sviluppo aziendale21.
La strategia dell’imprenditore prudente tenta di aggiungere valore al suo ambiente in ordine a legittimare la sua esistenza e assicurarsi un futuro. Sarà una strategia appropriata in quanto l’impresa è meglio capace di incontrare e unire le sue particolari risorse con gli obiettivi economici e le richieste dei suoi stakeholders.
Tiene presente non solo il conflitto tra interessi sociali ed economici, ma dirige l’attenzione prima di tutto sull’orientamento strategico di fondo dell’impresa, che è all’origine delle situazioni conflittuali e del modo di porsi di fronte ad esse22. Vengono così valutate e messe in discussione le scelte fondamentali riguardanti i fini dell’impresa, il suo campo di attività, la sua filosofia gestionale e organizzativa, cioè gli atteggiamenti di fondo che sono all’origine delle strategie dell’impresa e dei modi in cui esse si concretizzano23. In questa prospettiva viene respinto un orientamento di breve termine, dove la ristrutturazione, con il suo carico di costi umani e sociali, appare come la inevitabile conseguenza di un cammino guidato da una miope ricerca del profitto o da altro miraggio, diverso dall’obiettivo dello sviluppo duraturo dell’impresa.
Una strategia del profitto accettabile non sarà quella che sviluppa una posizione monopolista, ma quella che cerca di identificare i punti di forza dell’impresa e di sviluppare quelli capaci di produrre, efficientemente, nuovi prodotti e servizi. Solo questa strategia prudente opera in accordo con lo spirito di competizione e contribuisce al bene comune o rappresenta un interesse generalizzato, le altre sono irresponsabili e quindi immorali24;
Anche nel caso della responsabilità sociale dell’impresa le opzioni di fondo entrano in gioco (Caritas in veritate n.40). Per la prudenza imprenditoriale ha senso chiedere all’impresa di farsi carico di questo o quel problema sociale, al di là di quello che la legge le impone, solo in quanto essa riesca ad inserire il suo impegno sociale in un disegno strategico coerente, dotato di una sua validità anche sul piano economico, e perciò capace di assicurare la funzionalità e lo sviluppo duraturo dell’impresa.
Una prudente responsabilità sociale va realizzata in una realtà che è sempre complessa, perché caratterizzata da una molteplicità di esigenze, economico-aziendali e umanistiche, tutte rilevanti e collegate da un fitto intreccio di relazioni dinamiche, che nel breve periodo sono prevalentemente di rivalità, mentre nel lungo periodo diventano complementari25. L’agire prudenziale propone procedimenti morali effettivi, verificabili, onesti, rigorosi: tutto ciò che evita gli entusiasmi sconsiderati o le condanne globali e pretenziose serve a stornare la volontà di scoraggiamento e a trovare le vie per un esercizio modesto, ma efficace, della responsabilità in una prospettiva dinamica che prende in conto la tensione verso scelte che concretizzino sempre meglio quella pienezza di bene, che sempre rimane distante dalla realtà imprenditoriale.
4. Osservazioni conclusive
L’intento dell’imprenditore responsabile non è tanto quello di trovare un altro modo di far funzionare l’economia, bensì quello di riuscire a mediare tra le esigenze della concorrenza e le obbligazioni sociali a cui si sente vincolato, a partire dal riconoscimento della portata politica delle proprie azioni. Il dirigente assume questa tensione tra sistema e azione imprenditoriale nella ricerca di percorsi originali fuori del seminato, con lo sforzo di conciliare l’inconciliabile, di inventare strade non battute in un contesto che tende a non riconoscerle. Di qui la disponibilità a scendere a patti con la realtà e a discernere il maggior bene possibile. Ciò che ci aspettiamo è un’autonomia relativa, fatta di ambiguità e di debolezze, ma comunque capace di creare realtà almeno parzialmente nuove. “Tentativi limitati, dunque, che non ambiscono a modificare la logica di funzionamento del sistema, ma che approfittano degli spazi di autonomia e di libertà per incuneare modalità di comportamento eterodosse”26. A questo proposito diventa illuminante quanto Paolo VI dice della figura dell’imprenditore prudente: “Se una certa immagine del capo tradizionale d’impresa è destinata a sparire, dice Paolo VI, ne nasce un’altra, quella di un uomo all’ascolto del suo tempo, delle sue scoperte e delle sue ricerche, delle aspirazioni degli uomini e dei loro bisogni; un uomo riflessivo che pensa per agire; un uomo creativo, che si scrolla di dosso le vecchie abitudini e si volge con coraggio verso l’avvenire; un uomo realista che sa scegliere i mezzi per tradurre nei fatti il suo ideale di vita; in una parola un capo che esercita la sua autorità come missione per il bene dei suoi collaboratori e della società intera”27. Si tratta di una personalità in cui le virtù morali (forza, giustizia, prudenza, temperanza) e spirituali (senso degli altri, disponibilità, umiltà) modellano un saper essere, oggi più importante del saper fare.
Sono così poste le condizioni perché l’imprenditore sia il soggetto che per primo è chiamato a scegliere per quella che Giovanni Paolo II chiama l’interiorità, il “riappropriarsi dell’irrinunciabile dimensione umana”28. A questo proposito la prudenza imprenditoriale concorre, in ragione della sua capacità ad abilitare un giudizio storico-pratico, al superamento delle inevidenze etiche nell’attuale mondo dell’impresa ed a individuare criticamente e autonomamente le forme storiche nelle quali si attua “l’irrinunciabile dimensione umana” dell’impresa. Essa ricerca i segni di trascendenza dentro un ambiente connotato da un punto di vista limitato e ridotto, e contribuisce a stabilire la fiducia tra i partecipanti all’impresa, generando e sostenendo la mutua affidabilità tra i vari gruppi di interesse29. Porta l’operatore economico credente a rifocalizzare e fondare la sua fiducia su Dio come il centro di valore da cui il merito di fiducia è misurato30.
La prudenza imprenditoriale permette la creazione di “uno spazio di libertà”: si rifiuta di accettare che i determinanti economici siano necessariamente determinanti assoluti.31. Nonostante le restrizioni economiche a cui uno è soggetto, la creazione di uno spazio di libertà può condurre ad una scelta per la soluzione più umana possibile nelle date circostanze. Si dà la capacità di operare al di là della logica dettata dalla razionalità strumentale, rielaborando la realtà e movendosi all’interno di tutti quegli spazi di ambiguità e d’indeterminatezza, che rimangono in ogni situazione socio-economica e che le diverse contingenze continuamente ricreano.
Persino in un contesto altamente strutturato emerge anche la intrinseca portata politica dell’agire prudenziale, in ragione della sua tendenza a suscitare continue tensioni tra le diverse sfere della vita sociale ed economica. L’agire prudenziale sostiene ed anima una riflessione critica sulle regole generali e sulla struttura del mercato accettabile dal punto di vista umano ed ecologico. E incoraggia un processo deliberativo aperto tra politici, impresa e opinione pubblica per assicurare un ordine economico giusto. Questo può essere acquisito solo se tutti i partecipanti hanno buona volontà e le riforme non siano bloccate quando toccano gli interessi di uno specifico gruppo.
La prudenza imprenditoriale, illuminata dalla Dottrina sociale della Chiesa, è particolarmente sensibile al bene dell’uomo in tutti i suoi aspetti e al compito di discernimento e promozione delle possibilità di bene da esplicitare e sviluppare: per questo motivo provoca anche la critica, il superamento, la riformulazione delle norme vigenti in ogni situazione imprenditoriale.
Ha la capacità di identificare quando una decisione ha conseguenze morali, e quindi deve usare modi etici di decisione che vanno oltre i risultati per la sopravvivenza e considerano i costi sociali, scegliendo di fare la cosa giusta in modo coerente.
Per questo i dirigenti sono tra “i principali trasformatori della società, quelli che maggiormente influiscono sulle condizioni della vita umana e che le aprono nuovi e impensati sviluppi. Qualunque sia il giudizio che si voglia dare di voi, dice Paolo VI ai membri dell’UCID, si dovrà riconoscere la vostra bravura, la vostra potenza, la vostra indispensabilità”32.
In conclusione la prudenza dell’imprenditore attesta la possibilità di un agire diverso che dispone di risorse dalla sua tradizione: inserita nel nucleo comunitario e culturale della chiesa racchiude una promessa di una trasformazione e il segnale di una breccia”.
GIANNI MANZONE-CRISTIAN LOZA ADAUI
Abstract
La prudenza imprenditoriale viene descritta in termini di « mediazione » o « discernimento » e mira all'individuazione di ideali storici concretamente perseguibili nella precisa situazione dell’impresa. E guida le decisioni da assumere nell’ambito dell’impresa, decisioni che si collocano in quella zona discrezionale, dove non si può essere guidati da mere regole etico-professionali e dove la formazione del carattere virtuoso determina la capacità di ponderazioni coraggiose e rispettose di tutti i valori in gioco.
il discernimento pratico-prudenziale individua il giusto e il bene da attuare attraverso la scoperta delle opportunità che si aprono all’interno dell’impresa e che si concretizzano nelle sue strategie. Implica di discernere le ragioni buone per impegnarsi negli interventi attraverso un processo di percezione accurata delle situazioni, di deliberazione saggia, di decisione e di azione. Configura un tipo di imprenditore caratterizzato dalla capacità di ponderazioni realistiche e nello stesso tempo coraggiose.
I fatti e l’esperienza produttiva e lavorativa nella loro materialità non vanno considerati come condizionamento bruto, ma come luogo imprescindibile dell’emergenza dell’ideale,
Circa la problematica epistemologica del discernimento e il concetto del maggior bene possibile, Cfr. G.MANZONE, Una comunità di libertà. Introduzione alla teologia sociale, Messaggero, Padova 2008, pp. 28ssg e pp.303ssg.
Nell’approccio neoaristotelico si tratta di un’etica del carattere piuttosto che di un’etica delle regole. Il problema non è tanto di escogitare le regole della convivenza tra individui dotati di scopi, preferenze, diritti o bisogni potenzialmente in conflitto, ma foggiare il carattere personale di ciascuno di noi alla luce della virtù (A.MACINTYRE, Dopo la virtù, Feltrinelli, Milano 1988). Il neoaristotelismo è considerato come una componente del più generale filone della filosofia politica americana, chiamato “comunitarismo”, esponenti del quale sono tra gli altri M. Sandel e C. Taylor. Per un’analisi critica e comparativa su tali autori si veda M.PASSARIN D’ENTREVES, Modernity,Justice and Community, F.Angeli, Milano 1990, cap.6.
Ciò presuppone, però, due cose: primo, che nell'interpretazione di quel principio morale generale non sia già compresa quel tipo particolare di circostanze, perché in questo caso si tratterebbe di un momento più di natura applicativa; secondo, che la conoscenza del principio morale generale non sia sufficiente per rispondere in modo appropriato alle circostanze date. Infatti, se la conoscenza del principio fosse sufficiente per agire, non si porrebbe il problema di scoprire quale sia il modo migliore per realizzarlo (.D.LORO, Formazione ed etica delle professioni, Franco Angeli, Milano 2008, p.88ssg.).
“Il messia umiliato e crocefisso, in questa contraddizione tra la sua santità e lo svelamento della violenza diviene il criterio ultimo di un giudizio che separa tra la vita e la morte nella misura che la sua e eistenza etica confronta ciascuno discepolo o no alla sua propria violenza come alle forze della morte presenti nella società” (C.THEOBALD, Christianisme comme style, v.II, Du Cerf, Paris 2007, p.762).
J.HOLLAND -P. HENRIOT, Social Analysis linking faith and justice, Centre of Concern, Washington 1980, pp.7-46.
L’analisi sociale sta alla strategia sociale come la diagnosi sta al trattamento, è il prerequisito per la cura delle malattie sociali, offre larghi parametri dentro cui specifiche strategie possono essere suggerite ma non le formula. I suoi contributi non vanno esagerati. Gli esperti professionisti dell’analisi sociale sono preziosi in quanto espongono il più largo contesto della situazione e addestrano le persone nell’uso degli strumenti analitici.
H. Simon e J.March concepiscono le imprese come processi di conoscenza e comunicazione umana (H. SIMON - J.MARCH, Organizations, Wiley, New York 1958). Le vedono come cervelli o sistemi di trattamento di informazioni, dove l’azione organizzativa è incanalata e determinata meno da evidenti regole e direttive che da percezioni e comunicazione di fini. L’azione delle imprese non è semplicemente governata da una razionalità imprenditoriale che fluisce dal vertice alla base, ma si sviluppa da un composto di razionalità e interessi a tutti i livelli della struttura.
D. KRUEGER, “Can Christian Ethics Inform Business Practice?”in S.NATALE ed., Work Values:Education, Organization and Religion Concerns, Rodopi, Amsterdam 1995 pp.53-71
Cfr. G.MANZONE, la responsabilità dell’impresa. Business Ethics e Dottrina sociale della Chiesa in dialogo, Queriniana, Brescia 2002. pp.96ssg.
“Et ideo nocesse est quod prudens et cognoscat universalia principia rationis et cognoscat singularia circa quae sunt operationes”( Summa Teologica II-II, q. 47 a.3)
Nessuno pensa che si vincerà il terrorismo con qualche azione strepitosa, ma si possono segnare delle nette vittorie con la lotta paziente, metodica e microscopica: quella che rivela i movimenti clandestini, ricostruisce le fila, smonta le reti, si mobilita costantemente. Le dimissioni per es. di un alto ufficiale di fronte alla corruzione: non eliminano il male ma scuotono le coscienze e infondono fiducia in cose diverse dalla viltà o dalla fatalità.
Per un altro verso la comprensione del bene possibile implica che non sia schematica rispetto alla compresenza di valori-disvalori nei vari settori del vivere sociale. Si tratta cioè della consapevolezza di non poter separare nettamente il bene dal male, il giusto dall’ingiusto: nella complessità tutto ciò è mescolato.
R.T.DE GEORGE, Competition with Integrity in International Business, Oxford University Press, New York 1993
Senza il consenso su queste norme, in una società pluralistica, l’impresa non può sopravvivere. Il valore etico di non danneggiamento o di restituzione per qualche danno fatto, è già un’esigente norma per l’impresa e i suoi clienti.
Raggiungere un consenso su queste aspirazioni positive in una società pluralistica a livello sociale non sembra possibile, mentre, a livello d’impresa, un certo consenso sembra richiesto per l’efficienza.
La Business Ethics anglosassone si concentra sull’uso responsabile della libertà mentre quella europea pone l’accento su come i condizionamenti strutturali e culturali dovrebbero essere formati responsabilmente. Il confronto tra la Dottrina Sociale della Chiesa e la Business Ethics fa emergere che l’impresa come comunità non è semplicemente qualcosa di partecipato, ma implica prima di tutto le persone che partecipano, con tutte le loro convinzioni pubbliche e religiose. Obbligo, responsabilità e lealtà sono essenziali alla comunità (G.MANZONE, La responsabilità dell’impresa, o.c., pp.39ssg.)
Gli azionisti sono molto interessati nel perseguimento del profitto, ma non per questo sono egoisti: diventano egoisti e, peggio, profittatori, se il loro interesse non tiene in debito conto l’interesse degli altri soggetti che partecipano all’impresa.
Le scelte concrete si pongono in termini assai diversi proprio in relazione
all’orientamento di fondo dell’impresa. Se, ad es., l’orientamento di fondo si caratterizza per un certo modo opportunistico di perseguire il profitto, per nulla preoccupato di fondare la redditività su solide basi, l’impresa potrà trovarsi ben più esposta all’eventualità di pesanti coinvolgimenti in fenomeni di corruzione commerciale che se fosse contraddistinta da un orientamento strategico di fondo tutto proteso a ridurre i costi, migliorare la qualità, dare al cliente un servizio migliore.
Nessuna strategia è inerentemente superiore ad un’altra per quanto riguarda i risultati e la legittimazione dell’impresa: la superiorità di una strategia su di un’altra dipende da come integra le attività sociali dell’impresa con le attività economiche per massimizzare il valore nelle sue diverse dimensioni.
“La cittadinanza sociale d’impresa si fonda sulla consapevolezza che non c’è antitesi tra lungimiranza economica e responsabilità sociale, al contrario la loro coniugazione può dare risultati molto positivi”( COMMISSIONE EUROPEA, Libro verde “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”, 18 luglio 2001, p.2).
M.MAGATTI, “L’impresa della responsabilità”in M.MAGATTI- M.MONACI ed., L’impresa responsabile, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p.39. L’opera prende in visione alcune imprese e le loro strategie “socialmente responsabili”.
Si tratta, anche dal punto di vista dell’efficienza stessa dell’azienda, di creare quelle condizioni che rendano possibile un modo di lavorare nel quale, “mentre si sviluppano le capacità personali, si consegue una produzione efficace e razionale di beni e servizi e si aiuta l’operaio ad essere cosciente di lavorare realmente in qualcosa di proprio” (LE 15, anche CA 43).
Piccole comunità, famiglie e chiese sviluppano fiducia senza molto pensiero cosciente, ma nel caso delle imprese che sono costrutti artificiali e convenzionali con ragioni economiche e interessate, costruire la fiducia deve diventare un processo conscio.
Secondo N. KAMERGRAUZIS (The persistence of Christian Realism, Uppsala University 2001 ) tra le generali affermazioni delle richieste etiche del vangelo e le decisioni che si devono prendere nelle concrete situazioni c’è bisogno di ciò che può essere descritto come “assiomi medi”. Essi sono tentativi di definire le direzioni in cui in una particolare situazione della società la fede cristiana deve esprimersi. Sono definizioni provvisorie del tipo di comportamento richiesto dai cristiani in un dato periodo in date circostanze. Un’argomentazione simile si trova anche in R.PRESTON, Confusion in Christian Social Ethics, SCM Press London 1994.
Le circostanze economiche e la sopravvivenza dell’azienda, per esempio, potrebbero rendere necessario licenziare alcuni dipendenti, ma c’è sempre più che una scelta sul modo in cui ciò può essere fatto o sul numero delle persone interessate, con alcune scelte più umane di altre. Inoltre il personale in sovrappiù sarà in grado di trovare altri lavori più facilmente, se durante la sua carriera ha ricevuto costantemente possibilità di formazione. Un ulteriore esempio: la globalizzazione e l’internazionalizzazione richiedono un elevato grado di flessibilità e mobilità da parte dei dirigenti, ma il modo in cui ai dirigenti è data la libertà di armonizzare le esigenze della vita familiare alle circostanze lavorative può essere molto diverso, e dipende dai propri valori che guidano il discernimento.